Edoardo Faina

Edoardo Faina

21/07/2021 Off Di Ottavia Rancati

Edoardo Faina, il basket attraverso un lungo ponte.

Intervista a Edoardo Faina che ci restituisce uno spaccato socio-sportivo vietnamita e di come il basket si stia affermando nel Paese. Classe 1993, nato a Roma in zona Cinecittà, a tredici anni diventa campione d’Europa di basket nel ruolo di play maker e a quattordici si trasferisce a Bologna per intraprendere una carriera professionistica nelle giovanili della Fortitudo. Tra Parigi, poi di nuovo Bologna, verso le Canarie finché, per un mix di fattori diversificati, si ritrova a Ho Chi Minh City, in Vietnam, e insieme a un altro giocatore di basket aprono una scuola di pallacanestro per ragazze e ragazzi. L’ultimo successo è avere organizzato per la prima volta in Vietnam una lega 3×3, in cui possono competere tutti senza distinzioni di nazionalità e che ha avuto un notevole successo con la partecipazione di giocatori del campionato nazionale.

Quando è iniziata la tua passione per il basket? Chi te l’ha trasmessa?

“Quando avevo sei anni tenevano un corso di mini-basket dopo scuola e mia madre mi iscrisse per provare, nonostante io fossi fissato con il calcio: dopo la prima lezioni mi sono innamorato della pallacanestro e non ho mai più smesso.”

In famiglia c’è qualcun’altro che ha giocato?

“Mia zia, la sorella di mia madre, ha giocato in serie A, a Roma ;e anche mio zio, cioè suo marito, ha giocato a basket ma in leghe minori.”

Qual è stato il momento in cui hai capito che del basket potevi farne la tua ragione di vita?

“È stato tutto una serie di eventi, in realtà non è che ci avessi mai pensato seriamente. Lo prendevo come un gioco, qualcosa che mi divertiva. Poi a Roma, all’età di dodici anni, mi sono trovato in una squadra forte, la Lux Chieti 1974, e siamo passati all’europeo Pgs dove c’erano squadre anche da Milano, Torino, Venezia ed è stato il primo confronto con avversari al di fuori di Roma. Siamo arrivati alle finali nazionali ma posizionandoci ultimi, mentre l’anno successivo ci siamo di nuovo qualificati e ce lo siamo aggiudicati, passando all’europeo che si è tenuto a Lignano Sabbiadoro (Ud). Contro ogni prognostico abbiamo vinto: per noi giocatori, che eravamo tutti ragazzini di tredici anni, era una vacanza, lo stesso per i genitori che ci hanno accompagnato. È stata una sorpresa per tutti e forse allora ho capito che il basket sarebbe diventata una cosa seria.”

Quindi come hai proseguito?

“La decisione stava tra Treviso, nella Benetton, o a Bologna: quando sono andato a Treviso a vedere le strutture dove vivevano i ragazzi, il livello era superiore rispetto a quello di Bologna, però la città non mi piaceva tanto, quindi ho optato per Bologna per l’atmosfera generale.”

Dunque, quando sei arrivato a Bologna?

“Era il 2008, quindi avevo quattordici anni e ci sono rimasto per qualche tempo; poi ho trascorso un anno a Parigi, sono ritornato a Bologna e sono andato infine alle Canarie.”

Ma questi viaggi si legano al basket o altro?

“Parigi no, ci sono andato perché quell’anno mi ero rotto la caviglia e non volevo restare a casa, così ho deciso di fare un’esperienza all’estero. Quando sono tornato a Bologna e ho ripreso con il basket, qualcosa era cambiato sia perché mi era passata la voglia di impegnarmi come prima, sia perché ero fuori allenamento e rimettermi in forma sarebbe stato molto faticoso. Nonostante ciò, la passione ardeva ancora e ho continuato a giocare in leghe minori, come serie D o C2.”

Quando sei stato a Bologna dove hai giocato? Quali allenatori ti sono rimasti più impressi?

“Ho giocato nella giovanile della Fortitudo con qualche allenamento in prima squadra, nella Stars in serie D, nel Cwd legata alla Fortitudo ma in D. Mi ricordo di Angelo della Fortitudo: una guida che mi ha insegnato tanto sul gioco e su come affrontare le partite dal punto di vista psicologico più che tattico.”

Sentivi la tensione da pre-partita?

“No, il contrario: la prendevo troppo alla leggera, perché sono sempre stato dell’idea che mi dovessi prima di tutto divertire, se poi diventa uno stress non ha senso continuare. Sotto alcuni aspetti va bene perché non si accumula stress e nei momenti decisivi della partita non senti la tensione; però, dall’altro lato non ti impegni quanto effettivamente dovresti.”

Questa è una costante nella tua vita in generale?

“Bella domanda…sai che mi sa di sì?!”

Dopo tutto questo, come sei arrivato in Vietnam?

“Quell’anno mi sono rotto il pollice e stavo giocando in leghe minori, oltretutto avevo perduto l’entusiasmo per questo sport. Avevo deciso di smettere di giocare, però sapevo che il basket era la mia passione e non volevo abbandonarlo del tutto, per cui ho fatto il corso da allenatore a Bologna; quando ho preso il patentino, ho provato ad allenare qualche squadra ma i soldi non erano abbastanza per sopravvivere, per cui ho iniziato a lavorare in giro per le fiere. Finché, con la mia ex ragazza, si è presentata un’opportunità in Vietnam e siamo partiti all’avventura. Una volta arrivati a Ho Chi Minh City, per i primi sei mesi ho fatto il restaurant manager in un ristorante italiano, nel frattempo andavo in giro per i campetti, parlavo con i ragazzi e una sera ho visto dei ragazzi che si stavano allenando, mi sono avvicinato e tramite loro mi sono messo in contatto con uno dei dirigenti del distretto 2 ed ho iniziato ad allenare.”

Distretto 2 indica la zona della città?

“Sì, la città è divisa dall’1 al 12 in distretti numerati, poi dal 12 al 24 hanno dei nomi. Ogni distretto ha la propria squadra.”

In Vietnam c’è una forte tradizione del basket?

“No, il campionato principale Vba (Vietnam basket association), l’equivalente serie A, è nato solo nel 2016, però moltissimi ragazzi e ragazze sono invogliati a giocare perché è diventato di moda, specie tra le femmine. Mentre stavo allenando questa squadra, ho conosciuto un ragazzo, Ken Len, con genitori vietnamiti ma nato negli Stati Uniti, anche lui un giocatore di basket. Insieme abbiamo deciso di aprire una nostra attività perché non volevamo più essere dipendenti di nessuno, in Vietnam si deve sempre stare in guardia: Ho Chi Minh City ha 13 milioni di abitanti con molti stranieri, per cui in qualsiasi lavoro di qualsiasi tipo ci vuole pochissimo per essere sostituito.”

Così è nata la vostra scuola di basket aperta a tutti.

“Esatto, a tutti i ragazzi femmine e maschi fino a un massimo di vent’anni. Principalmente alleniamo ragazze e ragazzi che aspirano a entrare nella squadra del distretto.”

Ci sono ragazzi promettenti?

“Direi di sì, il livello del Vba non mi sembra altissimo; il problema è che in Vba c’è la regola per cui la squadra ammette al massimo un giocatore straniero e uno metà vietnamita e metà straniero, al fine di fare crescere di più i giocatori vietnamiti ed effettivamente stanno uscendo giocatori molto forti.”

Qual è stata la più grande difficoltà di questo progetto?

“La mentalità dei genitori, specie all’inizio quando la scuola era vista come un parcheggio per i bambini, quindi anche i ragazzi magari non erano interessati al basket, ma i genitori insistevano affinché il figlio praticasse uno sport anche se svolgeva tantissime altre attività extra scolastiche, come pianoforte o il club di scienze; fa parte della loro mentalità: riempire il tempo in qualsiasi modo ed eccellere in musica, matematica e nello sport.”

E qual è stata la soddisfazione più grande?

“Vedere i ragazzi che si appassionano al basket, che si divertono al campetto, che imparano cose nuove giorno dopo giorno e vogliono fare del basket la loro ragione di vita. È un passaggio continuo di energia: io trasmetto a loro quanta più passione per il gioco possiedo e ne ricevo molta di più indietro. Questo mi ha ricaricato le batterie dopo il momento di tracollo che avevo avuto in Italia.”

Rispetto ai ragazzi che allenavi a Bologna ci sono differenze?

“Per i bambini tra i sei e dieci anni non tanto perché nonostante le diversità culturali rimangono bambini, quindi il loro interesse è correre, sfogarsi e imparare uno sport. Mentre per i più grandi, ho notato che in Vietnam sono più concentrati su una cosa specifica, complice il fatto che iniziano a lavorare giovanissimi, anche da tredici anni, perché in Vietnam le famiglie usano avere un negozio vicino a casa in cui vendono qualsiasi cosa, per cui sin da piccoli si impara un mestiere.”

Prospettive per il futuro?

“Aprire la stessa scuola in altre città del Vietnam perché prima del Covid-19 stava andando molto bene, oltretutto avevamo istituito dei tornei di basket per far giocare anche gli stranieri, che altrimenti non possono competere nel campionato vietnamita. L’idea ci è venuta con il mio socio/amico Ken e abbiamo deciso di creare una lega in cui tutti potessero giocare indistintamente dalla nazionalità. Abbiamo creato una lega 3X3 per poter giocare più partite, rispetto al classico 5X5. Anche in questo caso è nato più per una nostra voglia di giocare, non tanto con un pensiero imprenditoriale.”

Ha avuto successo?

“Abbiamo tenuto tre edizioni: il primo anno era partita come una cosa tra amici, quindi il livello era medio ma è stato molto divertente, in più ha avuto successo perché si proponeva una modalità di gioco inedita; così, il secondo anno è esploso: sono arrivati ex giocatori della nazionale e professionisti, per cui il livello si è alzato. Il torneo era diventato talmente famoso che un ragazzo che gestisce dei campi da calcio e basket a Đà Nong ci aveva invitato a organizzare un torneo per fare espandere il basket. Purtroppo, la risposta è stata diversa perché è una città più piccola, con meno stranieri e più povera, per cui meno soldi che girano e la gente è meno invogliata.”

Avete ricevuto qualche riconoscimento da cariche pubbliche?

“No, però siamo stati pubblicati su qualche giornale locale, rivista online, canali you -tube seguiti in Vietnam. Quando abbiamo ripreso dopo l’interruzione del Covid-19, sia io che Ken eravamo abbastanza sottotono perché non lavoravamo da tanto, la scuola era chiusa e per riprenderci ci è voluto del tempo. Durante quel “tempo”  ci hanno “fregato l’idea” perché anche in altri distretti della città hanno iniziato a organizzare i tornei 3×3 con l’appoggio del governo vietnamita e si sono diffusi per tutto il Vietnam. Noi con il fatto di essere rimasti indietro, non avendo né finanziamenti pubblici né privati, siamo stati un po’ fregati. Ora voglio concentrarmi sulla scuola, con i tornei sarebbe troppo difficile riuscire a confrontarmi con quelli che stanno emergendo.”

Ti piacerebbe tornare in Italia?

“Mi piace tornarci in vacanza: una volta che vivi fuori, hai voglia di stare lontano. Nonostante io ami l’Italia, non mi ci vedo più vivere qua.”

Ottavia Rancati

Bologna, luglio 2021