meraldi vanessa

meraldi vanessa

26/12/2018 Off Di Ottavia Rancati

Una persona è difensore se e solo se:

  1. ha uno spirito paladino (es: difende la libertà)
  2. ha grandi sogni e permette agli altri di averne; e
  3. sa come cadere a terra (rimanendo imbattuta) e vincere le offese dei rivali.

Vanessa Meraldi da Cavenago (LO), classe 1999, è difensore presso il Senna di Guardamiglio. Dal 2010 al 2014 ha giocato nell’Inter, per poi passare al Fanfulla femminile, dove ha contribuito al passaggio dalla serie D alla C. Nonostante i due infortuni, oggi Vanessa non teme nulla e il suo obiettivo è la serie A.

Ho letto che siete seconde nel campionato di serie D: complimenti! In generale, come sono andati i primi mesi con il Senna?

Molto bene: siamo un bel gruppo anche se riconosco che il nostro girone non è per nulla competitivo. Abbiamo perso solo contro il Pavia e pareggiato con l’Ispra, e in entrambi i casi avremmo potuto fare di meglio. Devo ammettere che trovo il campionato discontinuo: si passa da affrontare squadre toste a giocare contro alcune di un livello nettamente inferiore. Insomma, bisogna stare sempre vigili.

Oltretutto, molto spesso le peggior partite si giocano contro squadre più scarse.

Sì, perché se dopo venti minuti si è già 5-0, la concentrazione cala inevitabilmente.

L’obiettivo della stagione?

Salire di categoria.

Nel 2014 hai iniziato a giocare nel Fanfulla femminile: qual è stato il tuo percorso?

Ho passato tre anni con loro: i primi due nella Juniores e l’ultimo in Prima Squadra. È stato un bellissimo periodo della mia vita, mi ricorderò per sempre della vittoria dei play off, quando siamo salite in serie C. Purtroppo, l’ultimo anno siamo retrocesse e da lì è andato tutto a rotoli: la squadra si è sfaldata.

Come mai?

Non è stata data importanza al femminile. I nostri allenatori, Fabrizio Angelillo e Simone Maraschi, si interessavano molto ed erano dispiaciutissimi quando ci hanno comunicato la fine del calcio Fanfulla femminile, ma la società era poco presente.

Che motivazione vi ha dato la società?

Che motivazione… ci dicevano che ci tenevano al femminile, eppure non l’hanno mai dato a vedere. Il presidente si è presentato una sola volta alla fine dell’anno, quindi capisci anche tu…Nessuno si è più fatto sentire.

Come l’hai presa?

Non è stata una bella cosa, anche perché era l’unica squadra femminile a Lodi; in più, era un progetto che stava crescendo bene con tre categorie: Prima squadra, Juniores e le Giovanissime.

Nonostante il finale amaro, c’è stato qualcuno del Fanfulla a cui ti sei legata particolarmente?

Uno dei miei due allenatori: Simone Maraschi. Con lui ho tutt’ora un rapporto speciale e mi ha fatto crescere come giocatrice. Anche le mie compagne di squadra sono state importanti, mi hanno accudito in quanto piccolina del gruppo.

Sei ancora in contatto con alcune di loro?

Sì, ad esempio con Matilde e Aurora Tramelli ed Alessia Rescalli.

Alle altre compagne di squadra, dopo la disfatta del Fanfulla femminile, quale sorte è toccata?

Alcune hanno smesso di giocare, con mio dispiacere, altre hanno cercato una nuova squadra. La maggior parte delle ragazze della Juniores è andata al Riozzo, come ho deciso di fare pure io, perché per via dell’infortunio non ero abbastanza allenata per riprendere in Prima Squadra.

Quanto tempo sei stata ferma dopo l’incidente?

Mi sono rotta la caviglia nel febbraio del 2016, ho ripreso a maggio. A settembre è stata la volta del ginocchio, mi hanno operato e sono rientrata nel gennaio del 2017.

Antipatici gli infortuni al ginocchio, però tu sei riuscita a cavartela.

Sì, infatti pensavo fosse andata peggio, invece alla fine era solo il menisco il problema, per fortuna, mentre i legamenti erano rimasti illesi. Quando ho ripreso, è stato faticoso, mi dicevano che correvo scoordinata ed io avevo un po’ di paura. Col tempo ho iniziato a muovermi in maniera più naturale e senza pensarci.

Due infortuni, uno dietro l’altro: chissà che bei pensieri.

Me l’hanno detto in tanti. È stato complicato da accettare perché giocavo finalmente in serie C ed avevo solo sedici anni!

La partita che rigiocheresti di quei tre anni?

I play-off con cui siamo salite dalla serie D alla C. Giocavo nella Juniores e quando ho ricevuto la convocazione dalla Prima Squadra non mi aspettavo di entrare in campo, tanto meno che essere titolare: nel momento in cui ho letto la formazione mi tremavano le gambe. È stato bellissimo.

Sogno nel cassetto?

Giocare in serie A nel Milan, la mia squadra preferita, allenata da Simone Maraschi. Penso sia quello a cui miri chiunque giochi a calcio, altrimenti se non si punta al massimo, che senso ha fare le cose?

Sei dunque una milanista che però ha giocato per quattro anni con la maglia nero azzurra…

È stato difficile all’inizio (ride). Mi ricordo che al provino per giocare nell’Inter sono stata contenta perché mi hanno dato la maglia bianca: quella nero-azzurra non l’avrei indossata. Ripeto: è difficile, ma poi ci si abitua.

Raccontaci della tua esperienza nell’Inter.

Ci ho giocato per quattro anni; ho iniziato quando ero in prima media e ho smesso al primo anno delle superiori, perché era diventata una situazione difficile da gestire. Erano tre allenamenti alla settimana più la partita e mia madre, l’unica persona che mi accompagnava agli allenamenti, non ce la faceva sempre.

Come hai vissuto i giorni prima di abbandonare l’Inter?

Ne ho parlato moltissimo con mia mamma, che ha sempre fatto di tutto per me, ma era diventata invivibile come cosa e non poter presenziare a tutti gli allenamenti mi sembrava una scelta insensata. Così, ho deciso di provare al Fanfulla.

Ricordi più forti di quei quattro anni?

L’ultimo anno in cui ho giocato: ero nelle giovanissime e abbiamo stravinto il campionato, perdendo una sola partita.

Il più grande insegnamento che ti sei portata a casa?

Io sono arrivata all’Inter come attaccante, poi ho incontrato un allenatore che mi ha spostato in difesa e da lì non ho più cambiato: hanno trovato il mio ruolo.

Ti ci rivedi nella vita di tutti giorni nei panni di un difensore?

Sì, ad esempio con mio fratello. Abbiamo un rapporto stretto e siamo molto legati: ha dodici anni, gioca nel Cavenago e anche lui è difensore.

Cosa ti piace di più del calcio?

Entrare in scivolata e salvare un goal, cioè fare il mio dovere da difensore: proteggere la porta dagli attacchi nemici.

Che tipo di giocatrice ti senti?

Gattuso, cattiva! Secondo me, se manca la grinta manca il calcio.

Cos’è il calcio per te?

È un sogno. Quando scopro giovani giocatrici arrivare in nazionale provo un senso di soddisfazione enorme. Un esempio è Benedetta Glionna, che ha giocato contro di me in sere C e l’anno dopo la Juventus l’ha chiamata. Ha ricevuto il premio miglior giocatrice U 21 d’Europa: è una grande ed è la dimostrazione che i sogni possono diventare realtà!

A chi dedicheresti il tuo goal più bello?

A un po’ di persone: mio fratello, mia mamma, la mia fidanzata; infine a mia zia, che non c’è più, e che ricordo ogni volta che entro in campo indossando la maglia col numero a lei dedicato: il 5.

C’è qualcosa che vorresti passasse in particolare da quest’intervista?

Quando una bambina vuole iniziare a giocare a calcio, non vietateglielo! Ognuno di noi ha le proprie passioni e il calcio è di tutti, eppure la maggior parte delle persone non lo capisce. Conosco molte ragazze che hanno iniziato a giocare tardi perché i genitori glielo impedivano e, ovviamente, più tardi si inizia più è difficile realizzare il proprio sogno.

26-12-2018

Ottavia Rancati