Alessandro Lupo

Alessandro Lupo

16/03/2024 Off Di Eugenio Lombardo

INCONTRO CON MISTER ALESSANDRO LUPO

(di Eugenio Lombardo)

Chi  ha visto giocare Alessandro Lupo, protagonista del calcio nazionale degli anni Novanta, una stagione e mezza anche al Fanfulla, a cavallo con il nuovo millennio, lo ricorderà senz’altro come un giocatore forte, incisivo, con giocate di classe, certe volte di astuzia, o meglio: di peso, che facevano sì che in campo la sua presenza si avvertisse sempre: un incubo, per gli avversari.

E chi ha conosciuto anche l’uomo, lo ricorderà come un ragazzo schietto, sincero, diretto: in sostanza, fuori dagli schemi.

Era un calciatore che faceva la differenza, ed era un ragazzo in parte diverso dai suoi coetanei: aveva una testa che portava sempre oltre i propri ragionamenti, una grande fame di capire, di dare un senso alle cose, o più semplicemente una ragione.

Lo risento oggi, a distanza di 24 anni dall’ultima volta che gli avevo parlato. E lo ritrovo tale e quale: sempre di una sincerità disarmante, persona profondamente autentica, capace di guardarsi dentro, e di raccontarsi, come pochi sanno fare.

L’intervista la prende lui per mano. “Posso chiederti un grande favore, però me lo devi fare!”

Di cosa si tratta?

“Vorrei che emergesse da queste mie parole un vero senso di calore per l’ambiente di Lodi. Sono stato benissimo in quella stagione e mezza che ho militato per il Fanfulla: abbiamo coltivato un sogno, ma il Pavia aveva forse qualcosa in più e fu promosso, davanti a noi; ricordo la finale di Coppa Italia di categoria: lo stadio era pieno come mai”.

Eravate una bella realtà.

“Direttore generale Giorgio Veneri, allenatore Corrado Verdelli. Avevo legato particolarmente con tre compagni: Cabri, Guarnieri e Zanelli. Persone vere, capita che ci sentiamo ancora, ma vorrei che ciò capitasse più spesso. So che anche il figlio di Cabri gioca a calcio, e mi hanno riferito che è bravo”.

Tu oggi alleni l’Under  17 della Sanremese, ma per anni hai allenato in serie D, dove potevi serenamente restare: perché questa scelta così inusuale?

“Per due ragioni. Intanto io sono convinto che se uno ha giocato a calcio, debba lavorare nei settori giovanili, e più è bravo più deve restare in quell’ambito. Io vengo da una scuola importante: ero fra i giovani aggregati alla prima squadra di quella Sampdoria che vinse lo scudetto e partecipò alla Coppa Campioni.  E sento di avere tanta esperienza da trasmettere ai giovani”.

Su cosa punti?

“Penso che le regole da assimilare siano fondamentali, ancora prima di perfezionare la potenziale bravura calcistica. Intendo i comportamenti, i principi etici”.

Dicono che i giovani di oggi  non sono gli stessi di quando, ad esempio, eri giovane tu.

“Vero. Ma anche questo rientra nei comportamenti etici: fare ritrovare la voglia di sacrificarsi, di sapere conciliare lo studio con lo sport, di avere rispetto dei ruoli e dei compagni. Io quando sento dire ad un ragazzo che non viene all’allenamento perché è stanco vado fuori di testa”.

Esagerato!

“Guarda lavoro nel mondo della disabilità da molti anni. Un’esperienza di vita eccezionale. Chi vive la propria esistenza in carrozzina sognerebbe di fare una corsa su un campo. E noi dobbiamo avere rispetto delle fortune e delle opportunità che abbiamo, invece di sentirci stanchi od annoiati”.

Mi accennavi che c’era una seconda ragione per cui avevi preferito lasciare la serie D.

“Sì. C’è stato un momento che mi sono emotivamente scollegato. Ho avuto una serie di problemi di natura affettiva, diciamo pure sentimentale, e io sono sempre stato un uomo emotivo, insomma ho reagito male. Mi sono rinchiuso e ho dovuto recuperare alcune risorse interiori. Mi sono dedicato a me stesso per ricostruirmi. Ce l’ho fatta, ne sono venuto fuori. Ma non volevo stress che mi distraessero. Ho avuto offerte, anche importanti, proposte da prendere la valigia e andare anche piuttosto lontanuccio dalla Liguria, dove vivo. Ma al primo posto c’è mia figlia, i miei genitori, che adesso sono anziani, e io voglio dedicarmi a loro, che sono la mia priorità”.

Ciò ti fa onore!

“Comunque nei periodi bui impari tante cose: soprattutto che puoi contare davvero su poche persone. Poi c’è da dire che io alla Sanremese sto benissimo. E’ una società che punta sui giovani, che dà la giusta attenzione alle infrastrutture, certe volte qui mi sembra di cogliere qualcosa di magico. E comunque il futuro è dei giovani. Dimenticavo: come responsabile dell’area tecnica c’è Andrea Caverzan, credimi, la sua impronta è di spessore”.

Insomma, mi pare di capire che adesso sei felice.

“Guarda un allenatore con i grandi se è bravo incide al 30 per cento. Con i giovani, incide all’80 per cento. In serie D sei bravo solo se vinci: altrimenti si è tutti nella media. Con i giovani fai la differenza su ciò che sai plasmare e sviluppare, ma non devi dimenticarti mai il risultato: conta anche lì, bando alle ipocrisie”.

Tu da calciatore hai girato tanto e hai avuto diversi allenatori. Non ti chiedo di dirmi che ti ha lasciato di più. Ma ti chiedo di parlarmi di un mio amico: Osvaldo Jaconi.

“Lo ebbi nel Castel di Sangro: sono in una chat di quella squadra e mi capita che lo riveda. Grande tecnico e uomo vero, uno che sapeva sempre parlati, con garbo e profondità. Mi voleva convincere a restare nel Castel di Sangro, ma per tornare in Liguria ogni volta da lì impiegavo 10 ore. Gli dissi di no. E sbagliai. Quel gruppo in due stagioni arrivò in serie B”.

Oggi cosa vorresti ti fosse riconosciuto?

“Di essere rimasto sempre me stesso in un mondo davvero difficile: nel calcio la persona più onesta è la meno disonesta. Io non mi sono mai approfittato di nessuno. Sono sempre rimasto leale, schietto, sincero. Sono un uomo senza filtri. Tutto il resto ne consegue”.